Un modo consapevole di vincere: sport è educazione


Di Alistair Castagnoli
Intervista alla dottoressa Susanna PETRI

INTRODUZIONE – LO SPORT INSIEME AGLI ALTRI

Cosa fa di una persona una grande persona?
Ognuno di noi ha una risposta. I modelli a cui ispirarsi sono molti. Io credo che tutto si possa ricondurre e riassumere in a una scelta. Alla scelta. Una persona per chi fa ciò che fa? Lo fa prima per se stesso? O lo fa prima con gli altri?
Agire per se stessi è semplice, seduttivo, è un percorso in discesa.
Agire con gli altri, insieme agli altri, “vedendo gli altri”, richiede cuore, carattere e conoscenze. Richiede consapevolezza. La consapevolezza che, come ci ricorda sempre il Dalai Lama, siamo tutti interconnessi. Uniti.
In questa vita ci siamo tutti insieme.

Lo siamo anche quando pratichiamo uno sport, anche quando siamo opposti ad un avversario (senza cui lo sport cessa di esistere), anche in un contesto dove emergere è forse la motivazione dominante.
Dunque o cresciamo tutti insieme, vedendo l’altro ed entrando in empatia con esso – e ciò ci farà crescere come individui in armonia con gli altri.
O si imporrà il singolo, il prevaricatore legittimato dal benessere personale, e quindi nessuno crescerà veramente. Collezioneremo molte piccole vittorie individuali certo, riempiremo bacheche e scaffali, ma, alla fine del cammino, saremo sempre isolati. Porteremo con noi quella sensazione di vuoto esistenziale che ci affama e asseta continuamente.

Il percorso del “vedere gli altri” è un percorso complesso, ma per chi fa sport, per chi ha il privilegio di fare da modello (spesso inconsapevole) ad atleti più o meno giovani, è un percorso obbligato. Come svolgerlo al meglio? Come insegnare la competizione in modo che gli atleti acquisiscano “una consapevolezza sana di sé, dell'altro e della realtà”?

Prendendo spunto da quel tipo di partite che, sopratutto a livello giovanile (ma non solo) si vedono sempre più spesso, in cui una squadra nettamente superiore continua ad imporre la propria supremazia arrivando fino al punto di umiliare un avversario che è oggettivamente inferiore, abbiamo chiesto ad un’esperta, una persona che conosce sia lo sport sia le persone, di fare chiarezza sul nostro impatto come educatori.

LE DOMANDE AD UN'ESPERTA - VINCERE E POI?

DOMANDA: Nel basket (e in altri sport di squadra) assistiamo sempre più spesso a squadre che, anche quando la vittoria non è in discussione, perché sono oggettivamente superiori rispetto all'avversario, continuano ad imporre un gioco aggressivo che demolisce le possibilità di gioco avversario umiliandolo e che porta a una vittoria di 40/50 punti. Cosa provoca questo comportamento in chi lo subisce?

DOTT. SUSANNA PETRI: Ritengo che la risposta a questa domanda sia abbastanza immediata; ognuno di noi probabilmente ha subito nella propria vita un’umiliazione, e ricorda bene cosa si prova. In questo caso gli effetti soggettivi sono gli stessi di un comune episodio di umiliazione (senso di fallimento, vergogna, rabbia, frustrazione, impotenza) con la decisiva aggravante della legittimazione del sistema.
Chi pratica uno sport di squadra a livello professionista o semi-professionista, ma anche in misura minore a livello principiante, si trova necessariamente inserito in un contesto “culturale” strutturato e regolamentato che diventa una struttura anche psicologica, un riferimento interno fatto di persone, situazioni e principi che conformano una modalità di pensiero e, specialmente in questa fase di vita, costituiscono basi importanti per la costruzione della propria identità. Se all’interno di questo contesto un episodio oggettivo di umiliazione, accompagnato dai vissuti soggettivi corrispondenti di vergogna e impotenza, viene legittimato e percepito come normale, di conseguenza le modalità di pensiero e l’identità stessa si conformeranno a questa percezione. E’ possibile che chi subisce un’umiliazione autorizzata dal sistema in sui è inserito produca diversi possibili reazioni comportamentali alternative, con la finalità di gestire i vissuti negativi. La reazione, drastica ma in definitiva più sana, propria di una struttura dell’Io e di un’identità più solide e definite (e non è in genere il caso di ragazzine di 17 anni), potrà consistere nell’abbandonare il sistema (la società, la squadra o addirittura lo sport in questione), ovvero più raramente di opporsi ad esso; le altre possibili reazioni, meno sane ma adattive al sistema compromesso, consisteranno nell’assimilare i valori del contesto di riferimento nutrendo il desiderio di assumere il ruolo del carnefice e adoperandosi per coltivare sentimenti e abilità orientate all’umiliazione dell’altro e all’aggressività piuttosto che a una modalità cooperativa o sanamente competitiva. In altre parole, l’ingiustizia subita, così come accade nei casi di abuso di altro genere, produce una “mentalità abusante”, una cultura dell’umiliazione. Esiste infine la “terza via”, quella della retroflessione dei vissuti negativi, in cui la vergogna, la percezione d’ingiustizia e la rabbia non verranno proiettate all’esterno ma auto-riferite, e ciò porterà l’individuo fragile per età e in certi casi per predisposizione a mettersi in discussione, giudicarsi eccessivamente e costruire un’immagine di sé negativa; una situazione che crea i presupposti per disturbi psicologici anche gravi, legati alla carenza di autostima e di auto-efficacia (ovvero la percezione di poter influire in qualche modo sul proprio benessere e l’immagine positiva di sé).     

DOMANDA: E cosa provoca in chi lo mette in atto?

DOTT. SUSANNA PETRI: Il meccanismo di costruzione di un’identità e di un’immagine di sé conforme alla cultura nella quale si è inseriti funziona anche sul versante di chi porta a casa la vittoria, ed anzi in certi casi ha conseguenze estremamente più insidiose. Come nel famoso esperimento sull’autorità di Zimbardo (Stanford prison experiment SPE; 1971), in cui un determinato comportamento giudicato di per sé immorale veniva messo in atto senza problemi e senza traccia di empatia o risentimento se imposto da un’autorità riconosciuta, allo stesso modo l’aggressività e il narcisismo malsano esistente in ognuno di noi ricevono in un contesto di legalizzazione dell’umiliazione altrui una valida giustificazione e anzi un incentivo nella loro messa in atto. Questo porta chi vince a godere della liberazione di impulsi che vengono a lungo andare incontrollati in maniera sistematica ed egosintonica, in quanto portano allo sfogo e alla sperimentazione autorizzati di sensazioni percepite come positive, ma che in questo contesto mancano di un connotato di realtà (per il loro eccesso e per la condizione di netta superiorità rispetto all’avversario; per intenderci, è come se un adulto si sentisse onnipotente per aver battuto un bambino a braccio di ferro). In altre parole, chi mette in atto questo tipo di umiliazioni legittimate nei confronti dell’altro, specialmente se in base a queste esperienze e alla “cultura” in cui è inserito sta costruendo la sua identità, ha buone probabilità di trasformarsi in un individuo con scarso esame di realtà e una visione distorta ed esaltata di se stesso, una implicita fragilità dell’Io, data dalla mancanza di esperienze di fallimento (e quindi la difficoltà oggettiva di poter contare su strategie di difesa ottimali e sane, che non includano l’aggressività) e una progressiva perdita della capacità di “vedere” l’altro, ovvero di empatia. Nel caso più sano, in cui la persona si rifiuti di aderire alla cultura dell’umiliazione impostagli dal sistema, essa andrà incontro ad un conflitto interno assimilabile a quello che coinvolge i figli di genitori inadeguati, che si rendono conto delle loro mancanze, ma non possono concepire un modello diverso e quindi di nuovo mettono in discussione se stessi e la propria immagine positiva; gli effetti dunque, su chi non accettasse di aderire alla strategia proposta come “vincente” da un sistema così regolamentato, sarebbero gli stessi vissuti di impotenza, depressione e scarsa fiducia in sé di coloro che si trovano sul versante dei “perdenti”. 

DOMANDA: Cosa andrebbe fatto affinché lo sport fosse davvero un momento di crescita umana, personale e collettiva?

DOTT. SUSANNA PETRI: Ritengo questa una domanda davvero complessa, alla quale sicuramente non è facile rispondere in poche righe. Sicuramente non dobbiamo dimenticarci che lo sport è una vera e propria cultura, fatta di regole e valori e principi ai quali tutti coloro che vi appartengono scelgono o si trovano ad aderire. Le figure educative di riferimento in questo contesto (allenatori e famiglia) devono pertanto stare molto attente a costruire e proporre questa cultura tenendo conto della ricaduta che ha sul modo interno di chi la vive, sulla sua identità, il suo funzionamento psichico globale e di conseguenza il comportamento che metterà in atto anche in contesti esterni allo sport. Attraverso lo sport, come attraverso la scuola, il contesto familiare, e gli altri ambiti di esperienza dei ragazzi, si costruiscono persone pensanti, senzienti e in relazione, e che hanno il diritto e il dovere di acquisire una consapevolezza sana di sé, dell’altro e della realtà, rispettando tutte e tre le cose. Inoltre il contesto dello sport è particolarmente importante perché familiarizza i ragazzi (e gli adulti) con il delicato tema della competizione, che è tanto indispensabile alla sopravvivenza come potenziale fonte di gravi problemi relazionali. Va quindi dedicata un’attenzione estrema al modo in cui questo concetto viene trasmesso e insegnato, soprattutto ai giovani. Ritengo che sia importante e utile, per tutti coloro che si occupano di sport, e in particolare di sport in età adolescenziale, tenere in attenta considerazione il materiale umano con il quale si trovano a lavorare e la responsabilità che hanno nella formazione della visione del mondo e di se stessi che questi giovani individui sviluppano all’interno della cultura sportiva che gli viene proposta.

CONCLUSIONE: I COMMENTI DEI LETTORI

Concludo (credo che altre parole non servano e che noi tutti dovremmo riflettere su quanto appena letto) riportando i commenti di due nostri lettori che ringrazio e invito tutti a “passare il favore – pay it forward” affinché le parole diventino azioni.
Rumorose, potenti azioni.

“<<Ritengo che sia importante e utile, per tutti coloro che si occupano di sport, e in particolare di sport in età adolescenziale, tenere in attenta considerazione il materiale umano con il quale si trovano a lavorare e la responsabilità che hanno nella formazione della visione del mondo e di se stessi che questi giovani individui sviluppano all’interno della cultura sportiva che gli viene proposta>>.
Amen!
Intervista illuminante! Un sentito grazie alla dottoressa.
Fulvio

“Condivido anche io come Fulvio che questa sia un' intervista illuminante, per me da far leggere ad ogni allenatore e genitore che ha a che fare con ragazzi/e giovani.
Spesso si vedono allenatori che non allenano una squadra, ma allenano se stessi, e ovviamente chi paga (in termini di crescita emotiva) è sempre il ragazzo/a.
Spesso pensiamo di sapere tutto su tutto e non ci interessa cosa dicono gli altri, anche se su certi temi ne sanno più di noi; spero che questa intervista apra la mente di molti addetti ai lavori, ne guadagnerebbero molto i giovani atleti, in più credo che sia anche una crescita professionale per un allenatore/educatore meditare su quanto detto dalla Dottoressa Susanna Petri.
Marco
  
CHI E’ SUSANNA PETRI
Psicologa, Psicoterapeuta. Terapeuta EMDR. Lavora privatamente per lo sviluppo delle Risorse e del potenziale Umano e per il trattamento delle nuove dipendenze. Si occupa di adulti e di adolescenti.  

CHI E’ ALISTAIR CASTAGNOLI
Consulting e basketball coach, dottore in Scienze Motorie, redattore della rivista Nuova Atletica, blogger su Processi Decisionali e Intelligenza Emotiva nello sport.

Questo articolo è stato pubblicato sulla rivista Nuova Atletica - Ricerca in Scienza dello Sport, N. 244/245, gennaio/aprile 2014

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